Entrambi

gennaio 25, 2013 § Lascia un commento

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Respira, il secco, la polvere. Non è un gran problema, sa dov’è l’acqua, nascosta, ci arriva. Che sia nascosta è una fortuna. Gli animali la fiutano, annusano ma non possono berla, e sporcarla. Vanno via sconsolati. Un po’ dispiace. Ma poco.

Il problema è la pioggia. S’infiltra e trabocca. Spezza, gonfiando, le radici e la terra. Gocce pesanti, e crepe. Senza scampo se non chiudere ogni dannato poro, stame,  spina, pistillo, stelo. Aspettando che passi.

S’è allargato, sotto, a metà tra il dosso il piano, a metà del vento che lo brucia o lo fredda, ma sotto, sotto si allarga, prolifica, nell’umido, nel grasso che cumula ad anni una cengia, già canale, già sversatoio. Radici a decine, sottili ma tante, massa inestirpabile, spera, indifferente.

La fortuna di essere in un posto  che non è di nessuno, che a nessuno interessa, che non porta a nessun altro posto e poter bearsi d’aria e acqua e sole e vento. Sgretolando pensieri, diluendo gli sterpi, scoppiando di minuscole gemme che diventano semi, da sé a sé la passione, penetrare la terra e conviversi quieto. Finché dura.

 Dura, immemore del primo seme, dei  bulbi fittili amati, smanioso dell’ombra, bisognoso di luce. Normale, insomma, non fosse di sbieco sul dosso, bizzarro, stranito memento di altri che avverte, un’onda di buio di frescura di rumore. Gente.

Dura più del bambino che ci capita spesso, in bicicletta, ad una controra che entrambi, affiancati un istante, di suoni e di occhi, avvertono senza conoscere. Un accumulo afoso, uno affosso di vita che non li riguarda, se non per il peso di un’aria che estenua e rallenta ma non ferma loro.

Hanno da  sopravvivere, entrambi, neanche lo sanno, lo fanno.  Più tardi, negli anni si perderanno, finite l’estati e il gelato comprato coi soldi sfilati alla nonna da un borsellino mentre lei dorme e via di corsa, il sentiero che è pericoloso, e quindi più giusto, comunque più corto per arrivare al bar lungo un molo che è rosa di tufo il riflesso, svuotato, uno sputo grigiastro  per i pescatori.

Un pensiero selvaggio. E selvatico. Non farsi vedere, sfrecciando di fuga o – uguale – acquattarsi di verde e giallastro d’argento, viluppo di vespe e di zecche, qualche volta una biscia. Non farsi vedere. Allontanare, allontanarsi: una colpa, probabile propria. O un pericolo altrui. Crescendo sarà sempre peggio. Tentando di raddrizzare, inutilmente; distorti, da sempre. Fino a cedere, infine. A godersi il respiro stravolto  Quello che avevano, hanno. Entrambi.

Una frana discarica, i camion. Tutto cambiato, non che  importi anche se avverte più aperto il crinale, più fumo e rumore, Più storto, la pioggia è scivolata come il calanco e adesso la fognatura che spande liquefa intossica e allora spostare le barbe, i rametti, i getti, lontano, scomparsi i ramarri e i ronzanti.

La benna, che sradica e mangia, geometri e capomastri, case di carta bambine a picco su un mare lontano e limoso. Un affare.  Un colpo, a saltare la pietra, la terra, i formicai brulicanti, un’acqua mostosa salmastra-. Un salto, un taglio bruciante. Un vento di freddo. Un seme, lanciato a casaccio, portato a marcire alla nafta del molo. Un altro che vola di fianco,  che casca, fessura di roccia, distorta. S’appiglia. Ancora di nuovo, si sveglia.

(da “cartografie”)

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